Sufficienza della retribuzione: quando può dirsi soddisfatto tale requisito?

Tribunale di Milano – Sezione Lavoro – Sentenza n. 2692 del 17.08.2023

Con riguardo al profilo della sufficienza della retribuzione, atta ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, non rientra più solo il c.d. minimo costituzionale tradizionalmente assunto dalla giurisprudenza al fine di estendere l’applicazione di un contratto collettivo diverso al singolo rapporto di lavoro, ma occorre avere riguardo all’intera retribuzione e dunque all’intero trattamento economico di fatto percepito dal lavoratore.

Con questa recente pronuncia il Tribunale di Milano fornisce un interessante spunto di approfondimento in merito ad uno dei capisaldi della nostra legislazione giuslavoristica e cioè quello, costituzionalmente garantito, della proporzionalità e sufficienza della retribuzione spettante al lavoratore.

I Giudici milanesi, infatti, ricordano anzitutto come il primo dei suddetti principi sia strettamente legato alla funzione corrispettiva e, più propriamente, al sinallagma contrattuale del rapporto di lavoro, mentre il secondo è espressione della funzione sociale della retribuzione e, dunque, del valore sociale assegnato al lavoro proprio dalla nostra Carta costituzionale.

Secondo il Tribunale, infatti, la rispondenza del trattamento retributivo ai suindicati principi di proporzionalità e sufficienza previsti dall’art. 36 Cost., per quanto parametrata sulla base delle tabelle retributive previste dalla contrattazione collettiva, con il passare del tempo ha perso la sua originaria pregnanza giuridica e sostanziale per il mutare proprio delle condizioni di esperimento dell’azione sindacale.

I Giudici lombardi, pertanto, evidenziano come nell’ultimo decennio la contrattazione collettiva sembri aver cambiato volto poiché si è assistito ad una progressiva frammentazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro nonché alla moltiplicazione dei contratti collettivi sottoscritti per le stesse categorie e, quindi, alla deregolazione ed aziendalizzazione, anche per via legislativa, della contrattazione, fino addirittura alla diffusione dei contratti c.d. “pirata” siglati da organizzazioni sindacali prive di effettiva rappresentatività.

Secondo la pronuncia in commento, quindi, diventa possibile, oltre che necessario, far valere in giudizio l’insufficienza della retribuzione prevista dal CCNL applicato, sotto entrambi i profili della c.d. proporzionatezza e della sufficienza, con onere della prova che incombe su colui che fa valere in giudizio tale diritto e intende superare la presunzione di adeguatezza delle previsioni contrattual-collettive.

Con particolare riguardo proprio al profilo della sufficienza il Tribunale di Milano precisa opportunamente come in tale valutazione non rientri più solo il c.d. minimo costituzionale tradizionalmente assunto dalla giurisprudenza al fine di estendere l’applicazione di un contratto collettivo diverso al singolo rapporto di lavoro, ma occorre avere riguardo all’intera retribuzione e dunque all’intero trattamento economico di fatto percepito dal lavoratore, come del resto sancito anche dalla Corte Costituzionale con varie sentenze tutte conformi a tale principio.

Secondo i giudici meneghini, infatti, è al trattamento globale che il lavoratore fa ricorso per provvedere al mantenimento di se stesso e della famiglia, attingendo anche ai trattamenti integrativi della paga base previsti dai diversi contratti collettivi, quali in primo luogo scatti di anzianità, tredicesima, quattordicesima, maggiorazioni per lavoro supplementare e straordinario, premi di produzione, di rendimento ecc.), tutti comunque dotati di natura alimentare, nonché anche alle somme che il datore di lavoro è tenuto ad erogare per le esigenze di studio dei figli dei dipendenti, in quanto tese ad adeguare il corrispettivo proprio alle concrete esigenze familiari.