SuperFocus SLS – Quando una semplice scrittura privata di disposizione di beni e diritti tra padre e figlio integra un patto successorio vietato per legge? Spunti da una recente ordinanza della Corte di Cassazione

Come è noto, nel delicato momento del trapasso di funzioni e di responsabilità che molto spesso contraddistingue la cessione di un patrimonio societario ed aziendale da un genitore in favore dei figli, una delle problematiche più rilevanti, sotto il profilo giuridico, è rappresentata dalla necessità di valutare attentamente la natura della scrittura privata che a tal fine si utilizza per non incorrere nel chiaro divieto dei patti successori di cui all’art. 458 del Codice Civile.

Questa disposizione civilistica, infatti, testualmente prevede, nei suoi soli due commi, peraltro quanto mai stringati ed esaurienti nella loro formulazione, che «Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti, è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi».

Si tratta, dunque, di norma che in tal modo intende vietare ogni possibile accordo di disposizione dell’eredità propria o altrui rendendo nulle ed inefficaci quelle convenzioni attraverso le quali si vada a decidere in ordine alla propria successione (c.d. patti costitutivi o istitutivi), o ad un’eredità non ancora aperta (c.d. patti dispositivi o pacta corvina) o si intenda rinunciare ad esse (c.d. patti abdicativi) al fine, evidente, di condizionare la libera volontà del testatore o del de cuius e/o dei chiamati potenziali all’eredità rispettivamente di disporre dei propri beni in maniera autodeterminata e di accettare possibili eredità o lasciti di natura successoria in maniera altrettanto consapevole.

Sul tema, di recente, si è espressa la Corte di Cassazione – Sezione Seconda – con la sua recente ordinanza n. 14110 del 24.05.2021, a conclusione di due diversi procedimenti monitori avviati da un genitore nei confronti dei propri figli, ritenuti inadempienti del versamento delle rendite vitalizie poste a loro carico in forza di apposita scrittura privata, con la quale lo stesso genitore aveva ceduto loro la nuda proprietà delle società e delle partecipazioni societarie di cui era titolare ed assunto, al contempo, l’impegno a custodire il proprio patrimonio al dichiarato fine di aumentarne il valore e senza poterne disporre in favore di terzi.

Sulla impugnativa formulata dai figli in sede di legittimità, infatti, per la asserita violazione e/o falsa applicazione proprio dell’art. 458 c.c. per integrazione, a loro dire, di un patto successorio a tutti gli effetti di legge con conseguente nullità dello stesso, stante l’aspettativa di carattere successorio del patrimonio determinatasi con lo stesso, la Corte Suprema ha fornito una lettura del problema diametralmente opposta.

Più precisamente, essa ha in questa ultima occasione evidenziato come l’atto pattizio intercorso tra padre e figli non integri un patto successorio per mancanza dei requisiti richiesti dalla propria, consolidata, giurisprudenza[1] ed ha pertanto sancito che ai sensi dell’art. 458 c.c. comma 1, seconda parte, sono «patti successori le convenzioni che abbiano per oggetto la costituzione, trasmissione o estinzione di diritti relativi ad una successione non ancora aperta e facciano, così, sorgere un vinculum iuris, di cui la disposizione ereditaria rappresenti l’adempimento (Cass. n. 24450 del 2009; Cass. n. 63 del 1981)».

La Corte di cassazione, anzi, ci rammenta come l’esplicito riferimento normativo contenuto nel citato art. 458 c.c. ai patti di famiglia” ex art. 768 bis stesso codice, con i quali, come è noto, si consente all’imprenditore di trasferire la propria azienda ai suoi discendenti senza dover attendere necessariamente il verificarsi dell’evento successorio, confermi come detti accordi non possano ritenersi “patti successori” integrando piuttosto i connotati giuridici di veri e propri contratti tipici che derogano al divieto in questione.

Per quanto, infatti, il limite di demarcazione tra le due fattispecie giuridiche sia alquanto labile e non sempre perfettamente distinguibile, con questa recente pronuncia la Corte di Cassazione fornisce un più chiaro strumento interpretativo, allorquando precisa che occorre «accertare: 1) se il vincolo giuridico con essa creato abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità comprese nella futura successione debbano comunque essere compresi nella stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, così privandosi dello ius poenitendi; 4) se l’acquirente abbia contratto o stipulato come avente diritto alla successione stessa; 5) se il convenuto trasferimento, dal promittente al promissario, debba avere luogo mortis causa ossia a titolo di eredità o di legato (cfr. Cass. n. 1683 del 1995; Cass. n. 2619 del 1976)».

In definitiva, quindi, quello che i Giudici di legittimità sottolineano è l’ennesimo riconoscimento della piena e libera autonomia negoziale delle parti nella determinazione dei contenuti dispositivi di atti e contratti che rimangono comunque tali sebbene incidenti, anche solo potenzialmente ed in maniera del tutto indiretta, su eventuali future posizioni successorie.

Ecco dunque spiegato perché non possa ritenersi sussistente un “patto successorio”, nel significato allo stesso attribuito dal nostro Codice Civile, per il solo fatto che tra le parti vi sia uno stretto rapporto di parentela o, addirittura, di filiazione che involga di per sé conseguenze e/o ripercussioni di natura ereditaria, dal momento che non è oltretutto casuale il fatto che sia lo stesso Legislatore a voler derogare al noto divieto in parola affermando la legittimità e la regolarità di eventuali “patti di famiglia ex art. 768 bis c.c..[2] e, dunque, di quei contratti con i quali, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore o il titolare di partecipazioni societarie trasferisca, in tutto o in parte, l’azienda o le proprie quote ad uno o più discendenti.

Indubbiamente, non risulta possibile sottacere una oggettiva difficoltà pratica nell’individuazione di volta in volta di quei cinque presupposti che la Corte di Cassazione ha ritenuto dover essere sussistenti, né si potrebbe tralasciare di considerare come non sia acclarato se detti presupposti debbano essere ravvisati nella singola fattispecie nella loro interezza, come sarebbe spontaneo ritenere, ovvero solo in parte per alcuni di essi.

In realtà, però, se si vanno ad esaminare proprio i vari casi concreti nel tempo trattati dalla giurisprudenza, ci si rende facilmente conto di come il discrimine tra le due ipotesi sia più semplice da individuarsi di quanto non appaia prima facie.

In proposito, ad esempio, si pensi come la Corte Suprema, con altra recentissima ordinanza[3] espressa in relazione ad un atto di cessione da parte di un soggetto, poi deceduto, del proprio credito del corrispettivo di una vendita immobiliare a fronte di prestazioni di assistenza morale e materiale dallo stesso ricevute in vita, abbia ritenuto detto atto emesso mortis causa in quanto «diretto a regolare i rapporti patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte, e non destinato a produrre nessun effetto, nemmeno prodromico o preliminare, prima dell’evento morte»[4], dichiarandolo come tale nullo proprio per il chiaro divieto in commento. In questo caso, infatti, è stato evidenziato dagli Ermellini come l’evento morte del soggetto cedente vada ad incidere sia sull’oggetto della disposizione che sul soggetto beneficiario che era tale in quanto reputato ancora esistente in vita al momento dell’apertura della successione, sì da permeare di sé la scrittura privata a tal fine conclusa e renderla, pertanto, palesemente contraria al divieto sopra ricordato.

Occorre anche rilevare come ancora la Corte Suprema abbia riscontrato[5] la sussistenza di un patto successorio nullo anche nell’ipotesi in cui, sotto un profilo oggettivo, il negozio concluso non riguardi l’azienda o le partecipazioni sociali dell’imprenditore, ma piuttosto altre voci di attivo che vadano a concorrere a formare il futuro relictum del disponente quali danaro, crediti, mobilia, immobili, titoli ed altro, proprio perché i sopradetti unici beni trasferibili mediante regolare “patto di famiglia” ex art. 768 bis c.c., una volta aperta la successione, non solo non entrano a far parte del relictum ma non possono nemmeno assumere rilevanza, nei rapporti tra i legittimari, ai fini della ricostruzione del donatum

Al contrario, è stato escluso un “patto successorio” con il correlativo divieto di legge nell’ipotesi di scrittura privata con la quale il genitore compia atti di disposizione non tanto al fine di assicurarsi il semplice mantenimento economico ma piuttosto per garantire per sé e la moglie cure ed assistenza per la vecchiaia da parte del figlio, così che l’impegno in tal senso assunto da quest’ultimo assuma il valore di contropartita a quanto ricevuto.

In questo caso, infatti,[6] la Corte Suprema ha parlato espressamente di un “contratto di vitalizio alimentare o vitalizio atipico”, proprio per il carattere personale, e soprattutto immediato ed attuale, delle prestazioni di assistenza assunte dalla parte quando era ancora in vita, come tale pienamente configurabile nel nostro ordinamento anche secondo il più conforme orientamento giurisprudenziale di legittimità[7].

Delineati secondo questi presupposti, dunque, gli atti negoziali che sempre più spesso intervengono nel contesto familiare, sembra effettivamente più agevole riuscire a comprenderne la differente tipologia se, come insegna la Corte di Cassazione anche con la citata ordinanza, si riesca ad individuare, con un delicato processo interpretativo e sulla base ovviamente delle risultanze probatorie offerte dalle parti in causa, il reale intento che i contraenti abbiano voluto perseguire. Possiamo, pertanto, certamente affermare come la fattispecie oggi considerata sia senza dubbio tra quelle più suggestive, e per certi versi controverse, atte a dare compiuta esecuzione al dispositivo normativo di cui all’art. 1362 c.c. in tema, appunto, di “intenzione dei contraenti”, proprio perché da questo oneroso impegno interpretativo rimesso ai Giudici scaturisce la validità o meno di un determinato negozio se ed in quanto rientrante nel novero dei “patti successori”.


[1] I Giudici di legittimità richiamano, al riguardo, il proprio orientamento espresso con le sentenze n. 1863 del 1995 e n. 14566 del 2016.

[2] Istituto introdotto dalla Legge n. 55 del 14 febbraio 2006, con lo scopo di adeguare il diritto successorio alle esigenze del sistema economico mediante l’inserimento nel Libro II (“Delle successioni”) al Titolo IV del Codice Civile un nuovo capo V-bis rubricato “Patto di Famiglia” composto dagli artt. da 768-bis a 768-octies.

[3] Cass. Civ. – Sezione Seconda – ordinanza n. 12611 del 12 maggio 2021.

[4] La Corte Suprema richiama espressamente il proprio orientamento di cui alle sentenze n. 18198 del 02 settembre 2020, – Sezioni Unite n. 18831 del 12 luglio 2019 e n. 24450 del 19 novembre 2009.

[5] Cass. Civ. Sezione Quinta sentenza n. 29506 del 24 dicembre 2020.

[6] Cass. Civ. Sezione Seconda – sentenza n. 18198 del 02 settembre 2020.

[7] Cass. Civ. n. 13232 del 2017 e, più di recente, Cass. Civ. Sezione Seconda – Ord. n. 1080 del 20 gennaio 2020 nella quale, tra l’altro, si sottolinea che il contratto atipico di “vitalizio alimentare” «si differenzia da quello, nominato, di rendita vitalizia di cui all’art. 1872 c.c. anche per la natura accentuatamente spirituale delle prestazioni a favore del vitaliziato, le quali, proprio per tale ragione, sono eseguibili unicamente da un vitaliziante specificatamente individuato, alla luce delle sue proprie qualità personali».